MILANO - Quella palla ha un indirizzo definito. Quando il 10 in blaugrana si avvicina al limite dell'area di rigore, con l'interno piede dà la solita frustata di sinistro: la sfera prende il 'giro', si solleva per poi cadere in prossimità della porta. Gli abitanti del Camp Nou l'avranno vista non so quante volte. Conoscono già l'esito. La palla sta per cadere nell'angolo basso, a momenti abbraccerà la rete, e si leverà il solito urlo. E invece, no. La palla incoccia una mano.
Il guanto di Júlio César è arrivato fin lì: ma non c'è arrivato da solo. È un popolo quello che ha spinto le gambe del portiere, quello che ha voluto quello slancio decisivo che ha permesso al numero 12 di levare la palla dall'angolo. Un popolo che attendeva la Coppa, quella più importante, da troppo tempo. E non voleva più aspettare. Júlio César ha parato quel tiro imparabile di Leo Messi, nel Camp Nou. Mentre si è sollevato da terra, tra la meraviglia generale, il portiere dell'Inter del Triplete ha fatto il solito saltello, ma ha capito subito che non ci era arrivato da solo, fin là.
Una delle diapositive più esaltanti della Champions League del 2010 è proprio quella. Il Miracolo del Camp Nou. Resterà per sempre, insieme al sorriso di Júlio, che all'Inter ha regalato una marea di parate importanti, secondo la nobile tradizione dei numeri uno nerazzurri. Lui però, ha indossato il 12, quella maglia che una volta era indossata dal portiere di riserva, quasi a ricordare a tutti che su di lui c'era un filo di iniziale pregiudizio, da parte di chi non lo conosceva. Arrivava da lontano, e poi, soprattutto, era brasiliano, dimenticandosi però che, è vero, se c'è una vetrina degli orrori con dentro diversi 'goleiros' di quel Paese, esiste pure un pantheon di fenomeni: a cominciare da 'o goleiro maior' Gilmar, quello del Santos di Pelé e del primo campionato del mondo del Brasile, nel 1958. Come il nostro Acchiappasogni, lui pure aveva un piede sinistro educatissimo per giocare, lui pure trasmetteva sicurezza a compagni e tifosi.
Júlio César appartiene a tutti gli effetti a questa élite di fenomeni. Júlio ha iniziato da giovanissimo nel Flamengo, la squadra più tifata del Paese, e si era presto convertito in idolo dei Rubro-negros. L'Inter lo aveva scelto grazie a una magnifica intuizione, ma aveva capito subito che era necessaria una fase di apprendistato, prima di inserirlo al posto di un grande come Francesco Toldo. Si scelse la formula del prestito, al Chievo. A Verona, colmo di umiltà e voglia di imparare, Júlio si è messo a studiare alla cattedra di Luca Marchegiani, all'epoca portiere titolare del club. "Notammo subito - racconta l'oggi apprezzato commentatore Sky - le sue grandi doti: rapidità negli spostamenti e capacità di leggere il gioco in anticipo che lo porta a essere sempre ben piazzato. Favolose doti acrobatiche che gli permettono interventi spettacolari. Era solo questione di tempo".
Terminato il prestito, ecco la maglia dell'Inter, ecco il sentiero per la gloria. Lastricato di ricordi indelebili, emozionanti come la doppia parata in uno dei suoi primi derby, nel 2006/07, prima su Cafu poi su Seedorf, passando per il rigore parato in una successiva stracittadina a Ronaldinho, con l'Inter ridotta in nove, fino alle monumentali prestazioni nel cammino d'oro della Champions 2010, segnata in finale ancora da un paio di grandi interventi del carioca. Sopra tutte, il Miracolo del Camp Nou.
Valeu Júlio, uomo del triplete nerazzurro, obrigado por todo. Anche i brasiliani sanno volare, e portano il numero 12. Ora non dubita più nessuno.
Carlo Pizzigoni