MILANO - Durante la Grande Guerra, nelle valli orobiche, i 'Ragazzi del '99' si apprestavano a salutare le famiglie verso "la città", per poi essere spediti al fronte. Le donne, prima di salutare, in molti casi per sempre, i loro cari, avrebbero cucito, con il poco che avevano a disposizione, delle scarpe di panno. Quel sovraindumento li avrebbe riparati dal freddo nei feroci giorni di guerra, e riscaldati nel cuore, perché quelle scarpe significavano casa, significavano amore: l'unico sentimento disponibile per rimanere uomo, davanti all''inutile strage', come Benedetto XV denominò quel tragico conflitto. Da quelle calzature artigianali prendono il nome gli "scarpinòcc", una specie di raviolo, l'alimento tipico del grazioso paese di Parre, che ogni estate ricorda quei tempi passati con una sagra locale.
A Parre nel 1915 nasceva Severo Cominelli: qualche anno dopo, avrebbe calciato il suo primo pallone proprio con le tradizionali scarpe di panno della Val Seriana. E anche in questo caso, gli scarpinòcc si portavano dietro amore, passione ma stavolta per un gioco, per uno sport.
Colpire con forza il pallone fatto di stracci, molto spesso. Un gesto eseguito talmente bene che quell'esercizio lo portò a incontrare prima l'Atalanta, poi l'Inter, a 26 anni: Cominelli diventò nerazzurro nel 1941. L'umanità si era perduta in un'altra drammatica guerra. Il calcio rappresentava l'unica valvola di sfogo per un giocatore che si imporrà come leggenda all'Atalanta con 60 gol all'attivo, un primato durato fino al 2007. Un orgoglio, per un ragazzo sceso dai monti come l'acqua, che sgorga poco a nord di Parre, a Valbondione, all'ombra del Pizzo Coca da cui ricadono maestose le Cascate del Serio. Quel panorama è diventato familiare a molti milanesi, che vedono rinascere il corso del fiume in villeggiatura d'estate, solo cinque volte, come vuole la tradizione.
Ma il primo filo che lega il territorio orobico all'Inter era stato teso anche prima dell'arrivo di Cominelli sotto la Madonnina. I destini del fútbol negli anni '30 avvicinarono Bergamo e Milano nel nome di Carlo Ceresoli. Nel 1932 l'Inter si affidò ai suoi guanti per proteggere la porta nerazzurra. Campione del Mondo nel 1938, Ceresoli è cresciuto in una scuola calcio lontana dalle storie delle valli: allora si giocava a pallone alle porte della "Città dei Mille", all'Ardens Bergamo, la squadra progenitrice dell'Atalanta, di cui non è rimasto nulla se non il nome di un parco pubblico, ora ritrovo di studenti universitari.
Era però l'inizio di un legame che avrebbe portato diversi ragazzi al di là dell'Adda, confine reale tra il Leone Alato di Venezia e il Ducato milanese nei secoli, e ora soltanto tragitto, simbolico, in certi tratti persino pittoresco, come nel caso del Ponte di Paderno. Chissà se lo avrà percorso, in treno, il giovane Angelo Domenghini da Lallio: sullo stemma del suo comune, chiamato alea in epoca romana, è raffigurata una scacchiera da gioco. Alea non è altro che il dado, probabilmente un segno del destino, per un giocatore immarcabile. Domenghini iniziò a calciare i suoi primi palloni in oratorio, per poi essere protagonista di una Coppa dei Campioni storica dell'Inter nel 1965, oltre che Campione Europeo con la maglia dell'Italia, nel '68.
Insieme a lui, in quella Nazionale, c'era un altro ragazzo bergamasco. "Anzi, trevigliese," direbbero nella bassa. Non può essere un caso che uno dei più grandi nerazzurri di sempre, Giacinto Facchetti, sia di Treviglio. Treì è esattamente a metà strada tra Bergamo e Milano. Lì è nata la leggenda di Facchetti, che è la sintesi perfetta dei valori orobici più legati all'Inter. Ogni mattina Treviglio osserva Bergamo, e nei giorni più limpidi vede le mura di Città Alta, con la bandiera giallorossa che sventola presso Porta San Giacomo. Giallo come il Sole, la divinità, una ricchezza che sfugge ai valori materiali e alla quotidianità; rosso come il fuoco e il sangue. Insieme sono il simbolo di una comunità che unisce passione e tradizione, sacrificio e volontà. I veri colori di Bergamo, lo dice lo stemma comunale, non sono il nero e l'azzurro. Quelli li ha portati il calcio, il gioco che unisce, da cent'anni, i destini di Bergamo e Milano. E il calcio, non è soltanto un gioco.
Bruno Bottaro