MILANO - Giacinto Facchetti vide la luce settantasei anni fa, e il calcio non sarebbe più stato lo stesso. Cominciò attaccante nella Trevigliese, fu inventato terzino da Herrera e portò in avanti il ruolo di almeno vent'anni. Settantacinque reti in carriera, quando ai difensori era consentito varcare la metà campo avversaria, forse, un paio di volte a partita. Attaccante aggiunto, fisicamente insuperabile, bilanciava perfettamente atletismo e correttezza (fu espulso una sola volta, in carriera, per un applauso di troppo).
"Giacinto Magno" lo definì Gianni Brera, il più grande giornalista sportivo italiano, che si innamorò calcisticamente del numero 3 nerazzurro, maglia che mai nessuno indosserà più.
"Cipelletti" invece era l'affettuosa storpiatura del cognome che ne fece Herrera, che lo rese fondamenta di una delle squadre più forti della storia del calcio. Terzo di undici, "Sarti, Burgnich, Facchetti", primi in Italia, in Europa, nel Mondo.
Dopo il calcio giocato fu dirigente prima e presidente poi: sempre all'Inter, sempre dolce, austero, saggio, faro per tutti. Ma non sono solo i gol, le presenze, i trofei, la serietà nell'agire, le massime che ne hanno consegnato la figura alla leggenda sportiva. È che Giacinto Facchetti è un po' in ognuno di noi, ed è la parte migliore.
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