VIRGILIO FELICE LEVRATTO, LO "SFONDARETI"

Storia di un mancino diventato leggenda

MILANO - Un tiro che buca la rete. Ad immaginarlo oggi, la reazione più immediata sarebbe una risata. In un'epoca in cui non c'era ancora l'alta definizione a documentarlo, però, Virgilio Felice Levratto le reti le sfondava davvero. Classe 1904, originario di Carcare, piccolo comune dell'attuale provincia di Savona, ci riuscì sette volte in totale, secondo i racconti spesso trionfalistici dell'epoca. I palloni di cuoio pesanti e il tessuto meno resistente delle reti avvicinano il mito alla logica, il resto lo fanno la magia del calcio e una carriera, quella di Levratto, di altissimo livello: il contesto giusto in cui collocare la leggenda dello "sfondareti".

A cavallo tra gli anni Venti e Trenta, Levratto vestirà infatti la maglia di due delle squadre italiane più prestigiose del momento: il Genoa e l'Ambrosiana-Inter, com'era stata rinominata in quegli anni. Il percorso di Virgilio Felice, però, comincia in Liguria. Trasferitosi a Vado con la famiglia, entra a 14 anni nelle giovanili della squadra locale accompagnato dalle perplessità del padre calzolaio, scettico sul fatto che il figlio possa guadagnarsi da vivere grazie alla "pedata", come Gianni Brera chiamava il calcio di quei tempi.

Levratto impiegherà appena qualche anno a smentirlo. Nel 1922, passato in prima squadra, arriva col piccolo Vado in finale della prima edizione della Coppa Italia a soli 18 anni. La sfida con l'Udinese è tesa e bloccata, e i tempi supplementari a oltranza paiono destinati a essere interrotti soltanto dal tramonto. Al 118', però, sugli sviluppi di un contropiede la palla arriva al giovane attaccante che, dal limite dell'area, esplode il suo mancino. Vedendo sbattere il pallone sulla torre posta dietro la porta, l'arbitro si avvicina per verificare di persona: la sfera aveva sfondato la rete. Levratto aveva scritto la prima pagina di una storia incredibile che, pur senza l'aiuto delle immagini, sarebbe stata tramandata per quasi un secolo.

Sarà il commissario tecnico Vittorio Pozzo stesso a scomodarsi per andare ad osservare questo prodigio, che con l'Italia giocherà due Olimpiadi (1924 e 1928) vincendo un bronzo ad Amsterdam, conquisterà una Coppa Internazionale e incanterà tutti arricchendo la sua storia di altri capitoli affascinanti, come quella sfida al Lussemburgo in cui il portiere Bausch abbandonò la porta per evitare di essere colpito per la seconda volta dal suo sinistro violentissimo.

Dopo una stagione al Verona, tra i tanti club a lui interessati, Levratto preferisce il Genoa alla Juventus, complice la possibilità di restare nella sua Liguria. Con la maglia rossoblù si imporrà come uno dei migliori attaccanti della storia del club, segnando oltre 80 reti ma senza centrare il decimo scudetto del Grifone. Un Tricolore che nel 1930 gli sfuggirà a favore dell'Ambrosiana (la denominazione assunta dall'Inter nel 1928), nonostante una doppietta nello scontro decisivo disputato a Milano, finito 3-3. A risollevare le sorti nerazzurre in quell'incontro fu una doppietta di Giuseppe Meazza, con cui Levratto formerà dal '32 al '34 una coppia d'attacco entusiasmante, che nel primo anno realizza 39 gol, quasi la metà del bottino dell'intera squadra.

Anche con la maglia della Beneamata, con cui segna 27 reti in 67 partite, il titolo non arriverà: questione di sfortuna o cattivo tempismo, non sufficienti ad offuscare la grandezza di quello che, per molti, rimarrà il più forte giocatore italiano a non aver mai vinto lo scudetto. Ci riuscì infine nel 1956 con la Fiorentina, da vice di Fulvio Bernardini, in un'epoca in cui il suo mancino era già diventato leggenda per quei ragazzini che, potendosi fidare soltanto dei racconti di padri e nonni, ripercorrevano con l'immaginazione le gesta dello "sfondareti".

Alessandro Bai

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