MILANO - Sono due le caratteristiche che accompagnano ogni impresa. I pronostici contrari e la voglia irrefrenabile di ribaltarli, necessaria a farti esaltare, anziché affondare, nei momenti più difficili. Nel novembre 2012, lo "Juventus Stadium" era tra gli stadi europei più inespugnabili. Dall'esordio in campionato del settembre 2011, il popolo juventino non aveva mai visto la propria squadra perdere in casa, in una sorta di incantesimo che sembrava rinnovarsi ad ogni risultato positivo. Spezzare il sortilegio era il compito, difficilissimo, dell'Inter guidata da Andrea Stramaccioni. I nerazzurri arrivavano al "Derby d'Italia" da secondi in classifica e dopo sei vittorie consecutive.
La fiducia era tanta, ma davanti c'erano i rivali di sempre, campioni in carica e imbattuti in campionato, oltre che nel loro fortino. Per l'Inter è la prova del nove, una di quelle partite in cui sono gli uomini, ancor prima che i calciatori, a fare la differenza. Sono in tanti a pensare che anche la "Beneamata" dovrà piegarsi alla legge casalinga della squadra bianconera, che in totale non viene sconfitta da 49 gare. Ecco una partita da Inter per l'Inter.
Cassano, Milito, Palacio. Si sceglie il coraggio, oltre al talento offensivo, per ribadire un concetto: "Per noi, niente è impossibile". Siamo l'Inter. La palla rotola, passano meno di 20 secondi e la Juventus va in vantaggio. Eppure è proprio qui, nell'istante in cui ogni piano potrebbe saltare, ogni ambizione spegnersi, che nasce un'impresa. Come il cartellino rosso a Thiago Motta al "Camp Nou", come quel passivo di due gol con la Sampdoria a pochi istanti dalla fine.
Chi veste il nerazzurro sa che non esiste montagna che non si possa scalare, ed è con questa convinzione che l'Inter riparte, più determinata di prima. Handanovič chiude la porta a Marchisio, poi sono prove di pareggio: Palacio lo trova, ma è in fuorigioco; Cassano lo sfiora. Ma è soltanto questione di tempo: il piede destro che fa 1-1 è quello di Diego Alberto Milito, l'uomo che ha firmato ogni passo decisivo del Triplete. Un rigore guadagnato e poi calciato alla sua maniera, come tira quelli più importanti: non troppo angolato, ma forte quel tanto che basta per sfuggire a Buffon. L'esultanza è di quelle rabbiose, scuotendo i pugni e urlando, con gli occhi convinti. A quel punto, accontentarsi non bastava. La Garra Charrúa di Gargano, la direzione e l'intelligenza del Cuchu Cambiasso, i chilometri macinati dall'intramontabile capitan Zanetti. L'Inter riparte più forte di prima, digrigna i denti e mostra i muscoli, quelli che servono a Fredy Guarín per strappare tra Vidal e Chiellini e calciare in porta. Buffon devia, ma sulla traiettoria c'è ancora Milito, che di gol così si nutre e in caduta dà ai nerazzurri un vantaggio rincorso, voluto e meritato.
La Juventus reagisce, vuole tenersi quell'imbattibilità che ha resistito per mesi, ma davanti si trova una squadra consapevole della propria forza, convinta di poter gettare il cuore oltre quell'ostacolo mai superato prima da nessun altro. E allora ecco il terzo sigillo nerazzurro: lo imprime un altro argentino, stavolta di Bahía Blanca. Rodrigo Palacio chiude i giochi con un esterno che Buffon tocca soltanto, e poi va verso la panchina ad abbracciare proprio Milito, che è uscito poco prima ma, anche in giubbotto, è tra i primi a gettarsi in campo per festeggiare l'impresa che lui aveva cominciato. È prima di tutto la vittoria di un gruppo, di uomini che ci hanno creduto e hanno capito che, con quei colori addosso, riuscire in ciò in cui prima hanno fallito tutti, non è poi così impossibile.
Alessandro Bai