MILANO - Piangeva la signora Ersilia. Piangeva perché, sugli spalti dell'allora "Stadio Nazionale del PNF", in quella domenica del febbraio 1930, si sentiva tremendamente sola. Buona parte della folla che popolava la struttura era inferocita con Vittorio Pozzo. L'impianto era colmo di tifosi napoletani, accorsi a Roma per contestare il tecnico biellese, reo di non aver convocato Attila Sallustro. Il centravanti oriundo era un idolo a Napoli e i sostenitori partenopei avevano accolto come un affronto la sua mancata convocazione in sostituzione dell'infortunato Mihalich. Pozzo, uomo pragmatico e lungimirante, aveva preferito concedere l'esordio in Azzurro a un ragazzino di belle speranze che da un paio d'anni, a Milano, aveva stregato i tifosi nerazzurri. Si chiamava Giuseppe Meazza.
Ma a Roma, contro la Svizzera, il giovane attaccante milanese stava facendo fatica. E con gli elvetici avanti 2-0, i fischi erano tutti per lui e per il signore biellese che aveva pensato di mandarlo in campo. Così, Ersilia piangeva, costretta ad assistere alla pioggia di insulti che ricopriva suo figlio Giuseppe, o meglio "Peppìn", come lo chiamavano parenti e amici di sempre, quelli con cui era cresciuto dalle parti di Porta Vittoria, a Milano. Ma Pozzo non si era sbagliato.
L'Italia vinse 4-2, ribaltando il risultato con le reti di Magnozzi e Orsi, ma soprattutto con la doppietta di Meazza, che tra il 37' e il 39' trasformò un sudato pareggio in una rotonda vittoria, i fischi del pubblico in ovazioni, le lacrime meste della signora Ersilia in un pianto di gioia. Il 9 febbraio 1930 I'Italia si era accorta di uno dei talenti più innovativi e puri della sua storia. A Milano, però, qualcuno aveva scoperto "Peppìn" con qualche anno d'anticipo. E quel qualcuno era il dottor Fulvio Bernardini, allora giocatore dell'Inter di Árpád Weisz. Dopo gli allenamenti, Bernardini era solito assistere alle partite delle giovanili nerazzurre. In Meazza aveva intravisto un fenomeno e, con l'insistenza di chi ha il privilegio di conoscere il gioco del calcio, aveva convinto il tecnico magiaro a testare il giovane in prima squadra. L'11 settembre 1927, a soli diciassette anni, nel derby di Coppa Volta contro l'Unione Milanese, Meazza fece l'esordio. In campo, insieme a lui, c'era anche il suo scopritore. Segnarono entrambi in un roboante 6-1.
Bernardini, nel '27, e Pozzo, nel '30, non hanno fatto altro che porgere la mano alla storia. Il resto lo avrebbe fatto il figlio della signora Ersilia. In quattordici stagioni con la maglia nerazzurra, Meazza ha vinto tre Campionati (laureandosi per tre volte capocannoniere) e una Coppa Italia: in totale, 408 presenze e 284 reti. Ma la storia va ben oltre i numeri, freddi ma pur sempre impressionanti. E va perfino oltre i due Mondiali vinti con la maglia azzurra, sotto la guida di Pozzo.
Con la maglia dell'Inter Meazza è stato decisivo, sempre, ma soprattutto nelle partite più importanti. Ancora oggi è il giocatore nerazzurro ad aver segnato più reti nella storia del derby di Milano. Con i suoi dodici centri contro i cugini rossoneri, ha messo la firma su otto vittorie e due pareggi tra il 29 aprile 1928 e il 2 febbraio 1936. Quando lui segnava nel derby, il Milan non vinceva.
Il 2 marzo 1980, a poco più di sei mesi dalla sua morte, "San Siro", lo stadio più bello del mondo, è stato ribattezzato col suo nome. L'Inter di Bersellini lo ha celebrato, in quella stessa stagione, vincendo il 12° scudetto della sua storia. Uno degli ultimi regali fatti da Meazza alla storia nerazzurra è stata la scoperta del quindicenne Sandro Mazzola. Nel '57, mentre Sandrino e compagni, si apprestavano a scendere in campo per un derby contro i pari età del Milan, "Peppìn", allora responsabile del settore giovanile interista, volle parlare con loro. A diversi anni di distanza, Mazzola ha rivelato il contenuto di quel discorso pre partita.
"Ci convocò prima del match per preparare la tattica, manco fossimo in prima squadra. Ci disse, fumando una delle sue Durban: "Sapete ragazzi, io ho una macchia nera nella mia carriera". E noi, che lo consideravamo una leggenda, chiedemmo in coro: "Cosa?". E lui: "Ho giocato sei mesi nel Milan. Ora voi dovete andare in campo e vincere". Andò così".
Davide Zanelli