LUIS SUÁREZ, FARO E ARCHITETTO

Dal Deportivo La Coruña alla Sampdoria, con MondoFutbol.com ripercorriamo la carriera di uno straordinario campione che ha fatto la storia in nerazzurro

MILANO - È cresciuto all'ombra della Torre di Ercole, il faro di La Coruña, Luis Suárez Miramontes. Il ragazzo ci mise poco a decidere il suo passatempo preferito: con palloni di fortuna e scarpe di seconda mano, le vie della città galiziana divennero il suo primo campo da calcio. Per poter giocare lì, però, Luis fu costretto dalle circostanze a sviluppare quella tecnica sopraffina che l'avrebbe reso celebre durante tutta la sua carriera.

Dopo gli inizi in una squadra locale, all'età di 15 anni è un annuncio sul giornale ad accendere la scintilla del genio: "Il Depor cerca giovani calciatori", diceva il trafiletto. Suárez entra così nelle giovanili del Deportivo La Coruña, per poi esordire, in prima squadra, nel '52. Una stagione fu sufficiente per convincere il grande Barcellona, sicuro del talento del giovane, anche se rimaneva qualche dubbio sulla sua costituzione fisica, parecchio gracile. Tanto che, come rivela Gianni Mura, l'allora tecnico Ferenc Plattkó installò un punching-ball negli spogliatoi per cercare di risolvere il problema. Una mossa che Suárez non gradì: "Sono qui per essere calciatore, non un pugile", disse con decisione, chiedendo che l'attrezzo fosse rimosso. Per l'idea di calcio che aveva in mente, i piedi bastavano e avanzavano, sosteneva Luisito.

Il periodo al Barça è fenomenale, in sette stagioni vince due campionati, due Coppe delle Fiere, due coppe nazionali e, soprattutto, diventa il primo - ed è ancora l'unico - Pallone d'Oro nato in Spagna. E non inganni il binomio, oggi scontato, successo-Blaugrana; in quegli anni, vincere significava innanzitutto interrompere il dominio del Real Madrid di Alfredo Di Stefano, colui che, nonostante l'inevitabile rivalità, coniò per Suárez il soprannome 'Architetto'. Nomignolo non troppo ricercato per un genio del fútbol, avanti dieci anni al gruppo, per come pensava e interpretava calcio.

Un archistar, ecco. Nel 1958 approda a Barcellona Helenio Herrera, che soltanto tre anni dopo, passato all'Inter, avrebbe scritto il nome di "Luisito", in cima al libro dei desiderata da sottoporre alla dirigenza, che arrivò a sborsare circa 250 milioni di lire per assicurarsi il giocatore: una cifra talmente alta per l'epoca che, si dice, i dirigenti catalani rimasero scettici finché non videro quell'assegno fisicamente nella propria sede. Suárez, oltre a fare, e bene, l'"Architetto" in mezzo al campo, diventò anche uno dei leader di una squadra che possedeva giovani di assoluto talento che erano però ancora inesperti. 

Luis era il punto di riferimento tecnico per l'intera squadra, un po' come quel faro di La Coruña che da piccolo poteva osservare da ogni punto della sua città natale. Raccoglieva il pallone anche nelle vicinanze dei difensori, e con impressionanti e incredibilmente precisi lanci di 50 o 60 metri innescava i rapidissimi Mazzola e Jair. La sua corsa, poi, non gli toglieva quel gusto per qualche incursione letale. Nella finale di Coppa dei Campioni del 1964, giocata contro il grande Real Madrid, Luis nel sottopassaggio si accorse dell'eccessiva riverenza dei suoi compagni verso quei giocatori quasi mitici. "Ragazzi, siamo qui per batterli, non per chiedergli un autografo", disse il galiziano, ispirando la vittoria per 3-1 che valse il primo grande trofeo internazionale della Beneamata. 

Dopo una serie di successi a Milano, Suárez lasciò l'Inter nel 1970, ma rimase in Italia. Scelse proprio la Sampdoria, ma nonostante i 35 anni non andò affatto a svernare in Liguria. A Genova rimase tre stagioni, e il suo livello fu tale da guadagnarsi l'ennesima convocazione in nazionale, a 37 anni. Lì, come a Milano e Barcellona, Luis incantò compagni, avversari e spettatori. Tecnica, rapidità e intelligenza. E un punching-ball lasciato lì a dondolare: non servivano i muscoli, a chi era capace di trattare e far viaggiare la palla in quella maniera.

Alessandro Bai


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