MILANO - Ci sono giocatori che scelgono durante la propria carriera delle "vittime preferite", avversari contro cui, un po' per caso un po' per ispirazione, le gambe vanno di più, i tiri sono più precisi. Per Álvaro Recoba, l'Empoli era questo, ma non soltanto. Per qualche ragione, le sfide (e le reti) ai toscani hanno scandito i ritmi dell'esperienza del Chino in Italia.
Sei gol totali dal 1997 al 2008 (due dei quali con la maglia del Venezia, in cinque mesi entusiasmanti), che raccontano diverse fasi: il talento sconosciuto al terzo centro in Serie A, al "Castellani", con un pallonetto da oltre 50 metri "pianificato" già in panchina, mentre osservava Roccati che era "sempre fuori"; il Recoba più maturo, un ventottenne che pennellava la punizione, ancora in casa empolese (2-3), che avrebbe portato l'Inter ai preliminari di Champions nel 2004; infine, il penultimo gol in Serie A, l'ultimo a San Siro, direttamente da calcio d'angolo, il gol olimpico, quello che sarebbe diventato il suo nuovo marchio d'autore dopo il ritorno in Uruguay.
Tra una prodezza all'Empoli e l'altra, ovviamente, Recoba è stato molto di più: un genio, assoluto per alcuni, lunatico e discontinuo per altri. Mai indifferente, per certi tifosi il Chino veniva prima di ogni aspetto tattico, di qualsiasi esigenza dell'allenatore, tanto che per designare l'appartenenza alla tribù calcistica che ne seguiva il "culto" fu coniato il termine "recobiano".
Come i veri fuoriclasse, con le aspettative create, Recoba ha diviso, ma il suo estro calcistico rimane indiscutibile. Gli interisti che l'hanno amato gli riservano oggi un posto speciale nell'olimpo nerazzurro: l'uruguaiano ti rapiva con giocate da calcio superiore, poi ti lasciava il tempo di metabolizzare, di chiederti quando sarebbe arrivato il colpo successivo. E quando eri lì lì per dubitare, ecco allora che scatenava quel sinistro, quel movimento di corpo che faceva cadere gli avversari. Per questo motivo essere "recobiano" era come una fede: chi l'abbracciava se la teneva stretta, perché la gioia di attendere quale idea stesse preparando il Chino, superava tutto il resto.
Il numero 20, in fondo, era quello da cui aspettarsi l'inaspettato. Lo aveva dimostrato già il giorno del suo esordio, il 31 agosto 1997. Gli occhi di San Siro erano rivolti all'acquisto principe dell'estate, Ronaldo, mentre Recoba osservava la sua nuova squadra dalla panchina andare sotto col Brescia 0-1 per un gol di Hübner. Il Chino si scalda, entra e in diciotto minuti con due sinistri all'incrocio regala la vittoria a un Meazza che, si sa, chiede sempre tanto ma ha un debole per chi disegna fútbol: erano già nati i primi "recobiani".
A parte sette minuti nella partita successiva, Recoba non avrebbe più visto il campo fino a gennaio, quando giocò altri venti minuti e trafisse l'Empoli con quel favoloso tiro da metà campo. Quando nessuno se l'aspettava, appunto.
Chi accusava il Chino di essere discontinuo, sbagliava, forse. Paradossalmente, Recoba ha fatto innamorare tanti durante la sua carriera proprio per la continuità del suo talento, per la frequenza con cui ha consegnato alla memoria calcistica gesti tecnici che pensavi di poter vedere una volta sola nella vita.
E per quanto abbia fatto male alla sua "vittima preferita", è facile pensare che anche ai tifosi del "Castellani" gli incontri con l'Inter facciano rivivere la magia di quel sinistro uruguagio.
Alessandro Bai