MILANO - Chiedete a Matías Almeyda cos'è il calcio: misurate la sua passione e troverete l'essenza del gioco più bello del mondo. Il desiderio di rincorrere la palla lo ha coinvolto fin da bambino, come deve essere, nella cittadina di Azul, a sud della provincia di Buenos Aires. Comincia nelle squadre di barrio, di quartiere: sia percepita nell'accezione più positiva questa locuzione, perché l'Argentina, e in generale il Sudamerica, rimane ancora con l'impronta della "strada", dove prende coscienza l'anima futbolística più pura di ogni ragazzo. Partite serie, competizioni vere, in cui il giovane Matías si innamora perdutamente del Gioco e decide che sarà la sua vita. Non si arrende ai primi tentennamenti del River Plate, che lo chiama per alcuni provini (al primo si presenta coi capelli rasati: da lì nasce il nomignolo che si porta dietro anche oggi, "Pelado"), ma lo fa penare prima di regalargli il definitivo sì e la maglia con la banda rossa.
Volete stendere uno come Almeyda, uno che in campo dava il triplo di quello che poteva, con un "forse l'anno prossimo"? Matías al River, la più riconosciuta scuola di calcio del Sudamerica, ci entra, e se lo porta dentro per sempre, come se la banda rossa sul petto se la fosse tatuata sul cuore. Coi Millonarios della capitale argentina vince da protagonista, in una squadra gestita da un altro ex interista, Ramón Díaz, una Copa Libertadores, nel 1996, poi abbandona il Subcontinente per l'Europa.
Tornerà a casa, al River, per finire la carriera e mostrare, senza paura, a tutta la "Bombonera" durante un derby contro il Boca Juniors nel maggio 2011 che il suo amore appartiene al "Mas Grande", come tutti i tifosi dei Millonarios chiamano la loro squadra, e occuparsi del lavoro "sporco". Perché nessuno dei tanti professionisti che si riempiono la bocca di valori avrebbe mai rischiato così tanto di suo, avrebbe sostituito i calzoncini con la tuta e avrebbe allenato con l'unico obbligo di riportare nella massima divisione il River, dopo l'onta della retrocessione in una situazione ambientale invivibile. Ci voleva amore, tanto amore per sedersi lì: Matías ha tenuto sempre la testa alta e ha riportato la squadra dove meritava, per poi essere spesato in malo modo. Una volta di più, venivano confermate le sue certezze sull'ingratitudine che spesso abita il mondo del calcio, e che Almeyda ha sempre denunciato con la purezza dell'inattaccabile. In Italia ha giocato le sue stagioni migliori alla Lazio (tra gli altri uno scudetto, due Coppe Italia e una Coppa delle Coppe con i biancocelesti), è passato da Parma e ha poi vestito con onore la casacca dell'Inter.
Era l'Inter della ricostruzione, quella che stava fondando le basi per tornare grande. E l'Inter, che ha nel DNA la grandezza, iniziava a togliersi soddisfazioni anche in Europa: magica la notte di "St. James' Park" nel novembre del 2002, con i nerazzurri guidati da Héctor Cúper che vanno a vincere 4-1 sul campo del Newcastle. Il gol del 2-0 è un gran tiro da fuori proprio di Matías, a corollario della solita gran partita di recuperi e sacrificio: un tiro, che può apparire pazzo e incosciente, ma che in verità mostra in tutto Matías, l'uomo che non ha paura della brutta figura perché crede ciecamente in ciò che fa, come se si affidasse totalmente a una creatura superiore che governa il mondo. Perché Almeyda in campo ha sempre dato tutto, nonostante fuori dal terreno di gioco vivesse una situazione delicata, momenti in cui l'uomo ha messo profondamente in discussione se stesso e tutto quello che aveva attorno.
Il "Pelado" ha avuto il coraggio di affrontare una delle sfide più delicate, quella contro la depressione. Ne è uscito a testa alta, esattamente come a ogni triplice fischio dell'arbitro, con la voglia di sempre, qualche cicatrice nell'anima che non ha mai minato il suo amore per il calcio, anche se il mondo del pallone, quello che vive attorno al campo da gioco, lo ha più volte deluso, con le sue ipocrisie, le sue falsità.
Carlo Pizzigoni
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