L’ULTIMA TELA DI ROSICKÝ

MondoFutbol.com ci accompagna attraverso le pieghe della carriera del "piccolo Mozart"

MILANO - Ogni Ulisse ha la propria Itaca e quella di Tomáš Rosický si chiama Sparta Praga. E proprio come successo all'eroe acheo, il ritorno in patria è stato un viaggio costellato di ardue sfide ed incidenti, alcuni dei quali hanno certamente minato il percorso del fantasista ceco verso l'Olimpo del calcio. Nonostante tutto la carriera de "Il piccolo Mozart", così battezzato per l'eleganza con cui dirigeva il centrocampo, è stata più che onorevole, fra Borussia Dortmund e Arsenal, e indossare di nuovo la maglia dei Rudí ne è il coronamento perfetto. A sedici anni di distanza.

"La vita scorre davvero come l'acqua", chiosò Jiri, il più grande dei fratelli Rosický, nel giorno del trentesimo compleanno di Tomáš. I due, insieme, hanno portato i primi panni sporchi a mamma Eva, stimata giocatrice di tennis tavolo. Dal ČKD Kompresory Praga (oggi FK Bohemians) allo Sparta, dove i loro percorsi si sono divisi: Jiri rincorse il sogno de La Liga senza mai fare il grande salto con l'Atlético Madrid B come successe ai compagni di allora (Rubén Baraja e Veljko Paunović su tutti), Tomáš, invece, imboccò deciso la strada maestra del calcio che conta. Il primo a notare le qualità del piccolo di casa fu Pavel Paska. Un talento precoce e cristallino come il suo fisico. "Quando si presentò la prima volta - raccontò una volta l'agente - indossava dei pantaloni che cadevano così larghi che dissi fra me e me -: Questo non ha proprio gambe".

Il piede però c'era ed è rimasto fatato anche dopo aver lasciato il quartiere benestante di Střížkov, con famiglia al seguito, per trasferirsi in Germania, con gli stessi dubbi di sempre: classe innata, fisico esile. In una delle prime partite un tifoso ironicamente lo invitò a mangiare più carne, ad irrobustirsi, tanto è vero che alcuni ancora oggi lo chiamano "Schnitzel', cotoletta. E sebbene le cose non siano cambiate con gli anni, i tifosi gialloneri non hanno mai smesso di volergli bene, nemmeno quando all'apice della forma disse sì all'Arsenal e a Wenger. Era l'estate del 2007, il BVB di Sammer aveva oramai scritto gli ultimi capitoli del proprio romanzo e gli artefici del Meisterschale numero 92 avevano già intrapreso altre strade. All'appello mancava solo Rosický, imprigionato in un'immagine simbolica come poche: lui, in ginocchio sull'erba dell'Estádio do Dragão e alle spalle la Grecia di Rehhagel in festa, lanciata verso un trionfo europeo che avrà dello storico. Piegato in due, come un sogno che si allontana man mano dalla realtà.

Una realtà che avrebbe poi cambiato colori e bandiere, il rosso dei Gunners e la Premier League, ma non quei confini stretti: 179 cm pieni d'armonia e difetti, insufficienti a colmare la distanza fra il grande giocatore ed il campione. Eppure anche a Londra, fra tante lacrime, si ricordano partiture meravigliose come il k.o. al Tottenham quando il ragazzo de 'La città d'oro' mise a sedere Lloris con un pallonetto e indirizzò i suoi verso la conquista della FA Cup 2014. Sarà per quel viso pulito e infantile, sarà per i modi pacati che, nonostante la normale pressione, verso Tomáš c'è sempre stato un atteggiamento di umana comprensione. Applausi e messaggi d'affetto, come quello inviatogli da un campo profughi siriano in chiusura del suo percorso decennale con l'Arsenal. Lo invitava a non smettere.

E così è stato. Si è concesso giusto qualche assolo di chitarra nei Tři sestry, una delle punk-rock band più conosciute in Repubblica Ceca, ma la sua musica è stata sempre dolce, come un ritorno. Praga lo ha atteso con pazienza anche per questo, facendogli trovare ago e filo lì dove li aveva lasciati tempo addietro. La piacevole aria di casa e l'Europa League per tessere l'ultima tela.

Aniello Luciano


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